Luigi Rainero Fassati: «Alcolici prima causa di morte dai 16 ai 22 anni» Pioniere della chirurgia epatica, 84 anni a marzo: «Ho dovuto trapiantare il fegato a otto giovani per colpa di cinque vodke. Sono astemio dal giorno della laurea»

All’età di 4 anni, il futuro professor Luigi Rainero Fassati, 84 a marzo, primo dei sei figli del marchese Giuseppe Ippolito Fassati di Balzola, appoggiò un orecchio sul ventre della madre, incinta della terzogenita Yula. «Sentii il battito cardiaco. E poi un terremoto: era la mia sorellina che si muoveva. Dissi alla mamma: voglio aprirti la pancia per vedere che cosa c’è dentro». L’ha visto. Come direttore del dipartimento di chirurgia e dei trapianti del Policlinico di Milano, dove ha lavorato per 45 anni, ha inciso con il bisturi l’addome di 692 pazienti per innestarvi un fegato nuovo. Il suo vero primato, tuttavia, è il messaggino che Corrado gli ha spedito da Santa Marinella il 29 dicembre per augurargli buon 2020: «Sono passati 30 anni dall’ultimo trapianto. Che ne pensa? Vivrò ancora?». Un vero miracolo, perché, a 36 mesi dal primo intervento per una cirrosi epatica da virus B, il luminare dovette sostituirgli il fegato a causa di una recidiva e dal 2010 il sopravvissuto ha gettato via i farmaci immunosoppressori, che i trapiantati assumono per sempre onde evitare le crisi di rigetto. «Vivrai ancora a lungo», gli ha risposto Fassati. Di pazienti così, morti di vecchiaia a oltre 30 anni dal trapianto, ne ha già avuti. L’altro prodigio, tanto strabiliante quanto inutile, lo compì su Alex. Il chirurgo scrittore — dodici fra saggi e romanzi, l’ultimo, Un tempo per guarire, pubblicato a settembre da Salani — lo racconta in Mal d’alcol, stesso editore.

L’esito migliore, la sconfitta peggiore.
«È così. Fui svegliato alle 3.20. Il primario dell’ospedale Santa Giulia mi stava mandando questo giovane di 19 anni, uscito di strada in motorino, in preda a un’emorragia imponente, che non si riusciva ad arginare. Mezz’ora dopo ero in sala operatoria. Al ragazzo avevano già trasfuso cinque sacche di sangue. Ne aspirai dall’addome tre litri. Il flusso non si arrestava, faticavo persino a vedere gli organi interni. Provai a suturare il fegato ricucito dal collega. Era spappolato, solo a toccarlo si lacerava ancora di più».

A quel punto che si poteva fare?
«Niente, dovevo rassegnarmi a lasciarlo morire. O tentare un trapianto. Ma né il centro nazionale di Roma né quello di Parigi trovavano un organo. “Lo ha qui di fronte”, esclamò Marina, la fidanzata. “Prelevi metà del mio fegato e lo dia ad Alex”. Lei è pazza, replicai. M’insultò: “La denuncerò”. Fu così che mi balenò un’idea: togliergli il fegato per bloccare l’emorragia, in attesa di un donatore».

Un proposito ai limiti della follia.
«Lo so, me lo dissero anche i miei assistenti. Risposi: mi assumo ogni responsabilità, scrivo sulla cartella clinica che voi non siete d’accordo. Procedetti all’espianto, sicuro di porre fine alla mia carriera, perché temevo che in quelle condizioni il malato non vivesse per più di 120 minuti. Invece resistette 25 ore, finché il mio aiuto non volò in Austria a prelevare il fegato di un anziano di 78 anni morto a Graz. Che il trapianto era perfettamente riuscito lo capii vedendo uscire qualche goccia di bile dal coledoco».

Come fu il decorso postoperatorio?
«Passati 15 giorni, lo dimisi. Mi confessò la causa dell’incidente: “Da Lodi, dove faccio il dj, tornavo a Melegnano sbronzo, come ogni notte”. Mi giurò solennemente che si sarebbe astenuto per sempre dall’alcol. Quattro anni dopo venne a trovarmi la fidanzata, con il viso gonfio: Alex era tornato a bere, la picchiava. Un giorno mi telefonarono dall’ospedale di Melegnano per dirmi che era stato ricoverato con una grave emorragia gastrica ed era morto nel giro di 45 minuti».

Di qui la sua missione da pensionato.
«Sì, girare nelle scuole per mettere in guardia gli studenti dai pericoli dell’alcol. Ne ho già incontrati 54 mila. Viola non sapeva che bastano cinque bicchierini di vodka uno in fila all’altro per lasciarci la pelle. La salvai. In mio onore volle battezzare Luigi suo figlio, che oggi ha 15 anni. Ho curato 24 giovani in coma epatico, a otto di loro ho dovuto trapiantare il fegato. Un minuto prima sono sani e un minuto dopo morti, se non trovi un donatore compatibile. Provo una tale rabbia…».

Ma perché accade?
«Il corpo ha tre sistemi per difendersi dall’alcol: il vomito, il respiro che lo elimina al 10-15 per cento attraverso i polmoni, il fegato che lo neutralizza all’80 per cento con l’alcoldeidrogenasi. Ma questo enzima nei ragazzi fino a 18-19 anni non c’è. Già quindici minuti dopo aver bevuto, tutto l’etanolo è in circolo nel sangue. Ecco spiegate le stragi sulle strade».

Senza dancing, movida e apericena, si berrebbe ugualmente tanto?
«No. Oggi è di moda il binge drinking, bere per stordirsi. Chi va in discoteca ha il 31,9 per cento di probabilità in più di ubriacarsi, rispetto al 7,8 di chi non la frequenta. E ingollare drink a garganella aumenta di 70 volte le probabilità di un’epatite acuta fulminante con coma».

Spaventoso.
«Non lo sa nessuno. Ogni anno la tv fa 3 mila ore di pubblicità agli alcolici ma non spiega che sono la prima causa di morte dai 16 ai 22 anni e la seconda dai 22 ai 30. Perché, vede, se io asporto mezzo fegato invaso da un tumore, dopo due mesi si rifà. Ora, una superbevuta uccide 2,5 milioni di cellule epatiche, che in 45 giorni si riformano. Ma se ti ubriachi ogni settimana, l’organo è spacciato».

Come mai i giovani bevono forte?
«Fino agli anni Novanta non era così. È morta la famiglia. Solo l’1-2 per cento di chi è seguito dai genitori si ubriaca, negli altri casi arriviamo al 18. Alzi la mano chi non ha mai bevuto alcolici, chiedo agli studenti: lo fanno solo gli islamici. Chi si è ubriacato una volta? La alzano 60 su 100. Chi lo fa ogni settimana? Il 5 per cento. Oggi si vendono cocktail buonissimi, dolci, molto economici, scorciatoie sicure per l’eccitazione e la disinibizione».

Parla per esperienza personale?
«Mi sono concesso un whisky di sera fino alla laurea, nel 1961. Da allora sono totalmente astemio. Vino e liquori sono incompatibili con la mia professione».

Il consumo di alcolici è di 80 milioni di litri l’anno. Il vino fattura 11 miliardi. Vuole distruggere un’industria italiana?
«Voglio che i giovani imparino a bere con moderazione, tutto qui. Sono il primo a dire che mezzo litro di vino a 12 gradi, suddiviso fra pranzo e cena, quindi a stomaco pieno, in un adulto è benefico: aumenta il colesterolo buono, abbassa la pressione arteriosa, stimola la forza di contrazione del cuore, è antiossidante».

Perché diventò chirurgo epatico?
«Perché lo era il mio maestro, Dinangelo Galmarini. Aveva visto le sperimentazioni sui maiali in Brasile. Nel 1983 provammo il trapianto sull’uomo».

E andò bene?
«Certo. Consideri che nel 1982 ero stato formato a Pittsburgh da Thomas Earl Starzl, che 20 anni prima aveva eseguito con successo il primo al mondo».

Eppure Starzl fu chiamato l’«assassino di Denver», come mi ha raccontato Cristiano Huscher, anche lui suo allievo.
«Vero. L’11 luglio lo assistevo in un trapianto. “Non guardi la tua Italia in finale ai Mondiali?”, si stupì. E fece portare un televisore in sala operatoria. Poiché non ero abilitato agli interventi chirurgici negli Stati Uniti, mi cedeva la propria tessera personale per poterli eseguire. In quel 1982 mi affidò da tradurre il suo libro The puzzle people, uscito da Longanesi con il titolo Ai limiti del possibile».

Anche lei ama scrivere.
«Una passione nata dalla lettura. In matematica ero un somaro, così fin dal ginnasio per tre anni fui rimandato a settembre. Questo significava finire relegato per tutta l’estate a Reggiolo, dalla zia Eugenia, zitella, terziaria francescana, con il cappellano don Angelo, che officiava la chiesa del Palazzo Fassati, poi donato al Comune. Nell’immensa biblioteca la zia aveva nascosto i volumi che figuravano nell’Indice dei libri proibiti. Non mi fu difficile scovarli, a cominciare dal Decameronedi Boccaccio. Intanto i miei fratelli e il resto della famiglia, in tutto 32 persone, stavano da giugno a ottobre in una villa privata dentro il Des Bains, al Lido di Venezia, insieme con la nonna materna Sarina Nathan, cugina di Ernesto, che fu sindaco di Roma dal 1907 al 1913, e moglie di Iro Bonzi».

Il padre del conte Leonardo Bonzi, che vendette a Silvio Berlusconi i terreni per costruire Milano 2 e a don Luigi Maria Verzé quelli per l’ospedale San Raffaele?
«Lui, il trasvolatore dell’Angelo dei bimbi, campione olimpionico di bob. Ma per me soprattutto il marito di Clara Calamai, interprete della Cena delle beffe, prima donna nella storia del cinema italiano ad apparire a seno nudo. Al liceo Parini dicevo agli amici: scommettiamo che oggi viene a prendermi mia zia, l’attrice? E incassavo un sacco di soldi».

Durante le vacanze forzate a Reggiolo nacque la sua vocazione per la chirurgia.
«Grazie al medico condotto, Ermete Fontanili. Mi teneva nel suo ambulatorio, fu lui a insegnarmi a praticare le endovene. All’ospedale faceva tutto da solo, dai parti alle appendiciti, aiutato da una suora che addormentava i pazienti con l’etere nel gocciolatore. Invece per le tonsille arrivava l’otorinolaringoiatra da Reggio Emilia. Mentre le madri tenevano fermi i figli, con una pinza le strappava senza anestesia. Al vedere il fiotto di sangue che schizzava dalla gola, svenni».

Chi erano «Chiara e Gao che non ci sono più», ai quali dedica «Mal d’alcol»?
«Un’amica e suo figlio. Al marito trapiantai il fegato, invano. Gao fu colpito da tumore al cervello. Chiara lo fece curare a San Francisco. Tornarono dopo due anni: non vi era più nulla da fare. Un giorno ricevetti una mail: “Ciao Lura, grazie di tutto”. Corsi a casa loro. Li trovai distesi nel letto, vestiti con tuniche bianche. La mamma stringeva la mano del figlio ucciso dal cancro. Si era suicidata per stargli accanto anche nell’eternità».